giovedì 8 settembre 2011

Ippolito Cavalcanti - "Cucina teorico pratica" (1839)

 Il frontespizio della nona edizione (1852)
In molti si sono chiesti quali dovrebbero essere i caratteri che rendono "popolare" la letteratura. La risposta non è delle più semplici e non è questo il luogo per darne una, né voglio ora impelagarmi in una discussione del genere, che ha visto impegnate solo nel secolo appena passato alcune delle migliori menti del pensiero critico italiano, quella di Gramsci su tutte. Certo il problema linguistico è sempre in primo piano per chiunque si preoccupi di voler far arrivare "a tutti" la propria opera. La questione su lingua e dialetto è tuttora aperta (e in un certo senso è destinata a non chiudersi mai), e ci si è sempre chiesti quale dovesse essere la lingua ideale per raggiungere la comunità dei lettori (dei leggenti, oserei dire) lasciando fuori il minor numero di persone. Il duca Ippolito Cavalcanti (1787-1859), discendente dell'illustre famiglia toscana (trasferitasi al sud nel 1331 in seguito alla nomina vicereale da parte di Giovanna I)  e discendente di Guido Cavalcanti era ben conscio di questo problema. Era consapevole che il suo manuale di cucina e gastronomia napoletana, se redatto in lingua toscana non sarebbe arrivato ad una fetta consistente del pubblico partenopeo. Allo stesso modo sapeva che redigere un'opera in dialetto l'avrebbe confinata entro i confini campani, o giù di lì, senza raggiungere un uditorio più vasto. Da Qui la sua scelta di redigere il suo manuale, la "Cucina teorico-pratica" in due lingue, toscana e napoletana, così da poter essere compreso dal maggior numero di persone possibile, e toccare così ogni strato sociale (in grado di leggere).
Pubblicato in prima edizione nel 1837, e arrivato alla nona edizione nel 1852, il libro divenne immediatamente un classico della letteratura gastronomica ottocentesca.
Il libro non è solamente un libro di ricette, ma si occupa della scienza della cucina tutta, a cominciare dalla descrizione di come dovrebbe essere fornita una cucina ("molto ampia, col posto delle sue fornelle nel suo centro...situata nel pian terreno...), e proseguendo poi con la lista dettagliata di tutti gli utensili che si dovrebbero avere a disposizione (marmitte, casseruole, casseruole "matte", "pesciere", tortiere, padelle, stampi, "mescole di rame per schiumare", cioccolattiere", graticole, forchettoni...), fino ad arrivare alle norme per servire in tavola, per apparecchiare in maniera costumata, senza dimenticare alcune operazioni che oggi difficilmente si compiono in cucina, come il corretto modo di ammazzare un volatile ("Qualunque animale pennuto, che si vuol disossare, deesi primieramente saper ammazzare; dovendo farsi la ferita precisamente alla gola, e che non sia molto grande, onde non si laceri; avvertendo a tagliare perfettamente la trachea, perché così sortirà tutto il sangue, e la carne rimarrà bianca").
Il prontuario prosegue poi con la descrizione "di tutte le paste", dalla pasta frolla a quella per gli struffoli, dalla pasta di mandorle alla pasta per cannelloni; e dopo le paste si passa ai diversi modi per preparare il brodo, alle creme (la descrizione della preparazione della crema all'anice ha un che di poetico, nella sua rapida enunciazione: "Prendi once quattro di bombò col senso di anisi, li pesterai, li farai liquefare collo zucchero, e così avrai la crema di anisi").
Le ricette vere e proprie sono in maniera calendariale, fornendo un menù completo per ogni giorno della settimana. I piatti sono descritti prima in maniera sintetica e poi successivamente spiegati nel dettaglio. La cosa più interessante, a livello documentario, sono le "minute del dettaglio della spesa" poste alla fine di ogni capitolo, con i prezzi di tutti gli ingredienti citati nelle ricette.
Alla fine del terzo libro, ecco il cambio di lingua, e si passa dalla "lengua Truscana" alla "bella lengua nostra Napolitana". E l'autore spiega le sue ragioni: "Amici mieje, la capo ma fatto seccia, po compenà chisto quarto libro, e cheste benedette semmane cchiù me la fanno perdere, ma pe contentà a tante amice, e de chille associate, che m'hanno commannato, che nge mettesse no poco de Dialetto Napoletano, eccome cca, che nge lo metto comme meglio pozzo, avite pacienzam e compatiteme". E sembra divertirsi di questo cambio linguistico il Cavalcanti, quando, nella ricetta dei vermicelli si scusa col lettore patenopeo d'aver inserito un parola "troscana" all'interno del suo discorso: "Scaura tre rotola de vermicielli, li sgoccioli, aù aggio sbagliato, sculi, e li buoti dinto a no tino co tre musurella d'uoglio buono...".

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