venerdì 14 ottobre 2011

EDMUND SPENSER - THE FAERIE QUEENE (1590)

Frontespizio dell'edizione americana del 1857
Ogni Augusto ha il proprio Virgilio: Edmund Spenser fu il cantore che immortalò l'Inghilterra elisabettiana. La grande Eneide del regno di Elisabetta prima fu The Faerie Queene. Ma se nell'Eneide Augusto era solo un presagio, un'anticipazione - attraverso le gesta degli avi e il mito della fondazione - del potere futuro (cioè presente a Virgilio che scriveva) nel poema di Spenser la regina vergine si metamorfosizza e si allegorizza in una serie di personaggi (in primis Gloriana, la regina delle fate) che una volta ricomposti danno un'immagine di Elisabetta come nodo in cui convergono tutte le virtù, dalla pudicizia (e l'influsso dei Trionfi petrarcheschi si sente) alla giustizia; e l'impero britannico riceve il massimo della sua gloria, sotto la guida di Una (altra allegorizzazione di Elisabetta, di marca dichiaratamente neoplatonica - Una è la monas) unica detentrice del potere in un'ottica spiccatamente imperiale. Scrive in proposito F. A. Yates: "l'accettazione filosofica dell'Uno si fonde forse in questo contesto con l'idealismo politico, e viene messa in rapporto con il tema imperiale dell'unico governatore sovrano" (Astrea).
incompiuto poema epico (ci sono rimasti sei libri interi e parte del settimo di dodici previsti originariamente), The Faerie Queene, composto tra 1590 e 1596, s'affianca agli altri numerosi esempi in cui il poema epico diventa lo strumento di connessione tra il letterato e la corte, specchio di quel complesso sistema socioculturale che è il "meccanismo del dono" nella società e nella cultura cortigiana.
Virgilio dunque è preso a modello (Gloriana discendendo da Bruto rilancia inoltre nell'Inghilterra tardocinquecentesca il mito della discendenza troiana, attraverso la stirpe arturiana, che ogni grande dinastia ha arrogato a se stessa, in cui si passa dagli eneadi ai Tudor attraverso Bruto, leggendario primo re di Britannia), ma anche Ariosto e Tasso: fatto che associa The Faerie Queene ai grandi poemi dell'Italia rinascimentale (è l'autore stesso, che nella lettera a Walter Releigh che accompagna il poema, in cui descrive le intenzioni dell'opera, a tracciare una linea di discendenza letteraria che parte canonicamente da Omero, passa per Virgilio e ternima con Ariosto e Tasso).
Scrive ancora la Yates: "Dell'epica di Spenser si è detto che esprime un 'momento profetico', dopo la vittoria sull'Armada, quando la regina apparve quasi il simbolo di una nuova religione, trascendente sia i cattolici sia i protestanti per una osrta di rivelazione dagli ampi orizzonti, e comunicante un linguaggio messianico universale".


The Faerie Queene su Google Libri

martedì 27 settembre 2011

John Wilkins - Essay towards a Real Character and a Philosophical Language (1668)


L'edizione del 1802 delle opere di Wilkins
«Non c'è classificazione dell'universo che non sia imperfetta e congetturale. La ragione è molto semplice: non sappiamo che cosa sia l'universo». Così scriveva Borges nel suo L'idioma analitico di John Wilkins (in Altre Inquisizioni), e con questo principio generale e placidamente arrendevole allo stesso tempo, al di là di tutte le altre spiegazioni che pure furono date, da lui e non solo, confutava la lingua filosofica di Wilkins, ed il suo Essay towards a Real Character and a Philosophical Language. Wilkins aveva tentato di fornire una classificazione dell'universo, e ne era venuta fuori un universo suddiviso in quaranta categorie divisibile poi in differenze a loro volta suddivisibili in specie. Ma lo scopo di Wilkins non era la pura e semplice classificazione dell'universo (materiale e immateriale, reale e metaforico): Wilkins voleva trasformare questa classificazione in segni, in un alfabeto e - di conseguenza – in una lingua in cui doveva venir meno la caratteristica principale delle lingue naturali, l'arbitrarietà del segno, quel comportamento cioè che consente alle lingue di prendere suoni privi di significato, articolarli e assegnare ad essi arbitrariamente un significato. Questo non nella lingua di Wilkins. Seguiamo ancora Borges: «Le parole dell'idioma analitico di John Wilkins non sono goffi simboli arbitrari; ciascuna delle lettere che le compongono è significativa, come lo furono quelle della Sacra Scrittura per i cabalisti». Nella lingua di Wilkins, dunque, ad ogni segno corrisponde un significato, ma questo significato non gli è stato attribuito in maniera arbitraria, bensì è il segno stesso che porta le caratteristiche dell'oggetto rappresentato. Umberto Eco, nel suo La ricerca della lingua perfetta dice: «Wilkins si propone di costruire una lingua fondata su caratteri reali 'leggibile da ogni popolo nella sua propria lingua'».

giovedì 15 settembre 2011

Melchiorre Missirini - "Pericolo di seppellire gli uomini vivi creduti morti" (1837)

Frontespizio dell'opera
Melchiorre Missirini merita qualche rigo nella storia della nostra letteratura per una biografia che scrisse di Antonio Canova, e al massimo qualche nota a piè di pagina per le altre sue opere (o per la traduzione del Canto all'Italia di Byron). Noi lo prendiamo qui in esame per un suo trattato scientifico del 1837 Pericolo di seppellire gli uomini vivi creduti morti, dissertazione erudita sulla morte apparente e sui rischi che si incorrono a giudicar morti uomini che morti non sono. Gli intenti utilitaristici sono subito messi in chiaro: «mancava un lavoro che, raccogliendo le dottrine e gli esempi sparsi negli scritti di quanti tutelarono in questa parte il genere umano, abbracciasse tutta la materia mortuaria». La sepoltura per errore di persone vive è vista come un tremendo crimine nei confronti dell'umanità (e non importa che i casi non siano così frequenti, anche i terremoti non accadono tutti i giorni, eppure sono considerati grandi calamità), sono un crimine imperdonabile: «Qual perdono otterranno coloro che senza ribrezzo espongono i loro simili, ed anche gli amici ed i parenti, al più crudele di tutti i supplizii, cioè il resuscitar vivi in una tomba?».

In piena ottica neoclassico-erudita gli esempi addotti nello sviluppo dell'opera sono tratti dalla letteratura, antica e moderna, casistica dunque per la maggior parte libresca, anche se il Missirini afferma di aver assistito di persona casi di morte apparente. La guida massima però resta Cicerone, principe dei sapienti: «spesse volte nel corso di questo nostro libro prenderemo a guida il senno di un tant'uomo; perché già non potevamo avere scorta più sicura, più dotta, più leale di questo santo petto, nel quale tutta l'antica sapienza albergò».

Ma tra le righe del neoclassicismo del Missirini aleggia fin dalle prime pagine un sentore di titanismo romantico. Si disvela, infatti, come idea di fondo del trattato un concetto di Natura che lascia da parte l'armonia delle sua parti per dar mostra della propria terribile e arcana impenetrabilità. Gli antichi tentarono di comprenderla, dapprima con lo strumento del mito, poi attraverso la filosofia classica si è giunti fino al pensiero moderno. Ma la conclusione, il compimento di secoli di riflessione sulla natura, ha il sapore amaro di una resa, di leopardiana accettazione dello stato delle cose: «pensiamo che piuttosto all'uomo si convengano le pietose opere della carità, che le superbe ricerche delle cose impenetrabili».

Lasciar perdere gli arcani della natura e sostituire a questa vana ricerca il precetto morale della carità, questa la visione del Missirini; la misericordia è e deve essere l'occupazione principale dell'uomo, e nel caso tratta dall'autore la misericordia verso i morti e verso i morti apparenti.

La morte è uno dei maggiori misteri posti davanti all'uomo dalla Natura, e non solo in senso metafisico (quello del Missirini è pur sempre un trattato scientifico), ma anche materiale. Riconoscere la morte per il Missirini non è cosa facile, e alcuni segni che portano l'uomo a considerare deceduto un suo simile sono spesso ingannevoli. Non bisogna dunque farsi ingannare da segnali come la mancanza di respiro, la soppressione dei sensi, la mancanza di battito cardiaco o del polso, l'assenza di respiro, l'alterazione dei lineamenti, il cattivo odore, la schiuma alla bocca, il livore. Unico segno certo della morte è la putrefazione del corpo: «indizio indubitabile di morte sarà quando il disfacimento accade negli intestini; e ciò vedesi per un cerchio giallognolo, verdastro, nerastro che incomincia a circondarsi l'ombellico con emanazione di puzzore cadaveroso». Bisogna dunque attendere e scrutare bene il corpo prima di dichiararlo morto.

Da qui in poi il Missirini esamina con particolare acume numerosi cause di morte apparente, con esempi tratti dalla letteratura antica e moderna e dalla cronaca recente, e dispensa consigli sulla corretta inumazione dei cadaveri, da mettersi in atto solo dopo aver fugato anche il più minimo sospetto che si tratti di morte apparente ed eliminato ogni dubbio sull'effettivo decesso della persona; propone infine molti rimedi – compreso lo shock elettrico – per riportare in vita i corpi creduti morti.

Le ultime due parti del libro (la terza e la quarta) trattano due argomenti collaterali al trattato. La terza infatti è una trattazione storica sui più celebri casi di morte apparente, con casistica tratta in gran parte dalla letteratura.

La parte quarta, sui cimiteri, ha caratteri riscontrabili e accomunabili alla nota disputa successiva all'editto napoleonico di Saint-Cloud, e stabilisce, antifoscolianamente, la necessità di collocare i cimiteri al di fuori del centro abitato («la sola demenza e superbia portarono a derogare a quest'uso»); per il Missirini le tombe non hanno alcunché di romantico, e il principio fondamentale da rispettare in materia cimiteriale è solo quello igienico. Il capitolo «del freno posto al lusso dei sepolcri» sembra in effetti una diretta risposta alla particolare importanza data alle «urne dei forti» nel più celebre carme del poeta di Zante.

martedì 13 settembre 2011

Louis Sébastien Mercier - "L'an 2440" (1771)

Frontespizio dell'edizione del 1772
Che la fantascienza sia nata dalla mente di un illuminista  è un fatto che, a pensarci bene non sconvolge. Se la fantascienza è infatti il genere letterario del mondo possibile, della realizzazione del sogno e dell'amplificazione della tecnologia a partire da quelle che sono le aspettative del presente, il pensiero illuministico si trova ad essere la base filosofica adatta ad una visione del genere. La storia vista come progresso, come continua realizzazione di un miglioramento, sociale, politico, tecnologico, in costante miglioramento col passare del tempo. Questo è il carattere fondamentale del romanzo di Mercier, "L'an 2440" del 1771, prima ucronia, cioè primo racconto utopico che sposta l'asse della prefigurazione di una società ideale dallo spazio (le isole di Bacon, di Tommaso Moro o di Campanella) al tempo (la Parigi del 2440). Rheinart Koselleck l'ha definita "temporalizzazione dell'utopia", noi qui si potrebbe tentare di definirla fantascienza ottimistica, fautrice di quelle speranze nelle "magnifiche sorti e progressive" tanto ridicolizzate - e forse giustamente - da Giacomo Leopardi.
Primo viaggio nel tempo, il romanzo si sviluppa intorno alla vicenda del protagonista, risvegliatosi dopo un lungo sonno nella Parigi del 2440. La città che si presenta davanti agli occhi del protagonista ha dell'incredibile, è la società ideale, una società che ha messo in pratica tutti i progetti dell'illuminismo: giustizia, urbanistica intelligente, clero abolito, così come le prostitute, differenza tra ricchi e poveri livellata in uno stato di giustizia sociale accettabile, tutto il sapere sintetizzato in una ristretta biblioteca contenibile in un solo scaffale (ha scritto R. Darnton che nell'opera di Mercier si "dava fantasia ad un sentimento che era forte nel Settecento e che ora è diventato ossessivo: la sensazione di essere sopraffatti dalle informazioni e di ritrovarsi inermi di fronte alla necessità di selezionare i materiali rilevanti in mezzo alla massa di dati effimeri"). Insomma tutte le idee dell'illuminismo messe in pratica. L'idea di base è dunque che il tempo sarà clemente con l'uomo, e porterà ad esso un costante e continuo ("progressivo" appunto) miglioramento. Da qui all'eternità.
Non ci metterà molto, la fantascienza, quella vera, a battere le strade della distopia, e a considerare il progresso del genere umano verso un mondo migliore più che un sogno, un incubo.

"L'an 2440" su Google libri 

giovedì 8 settembre 2011

Ippolito Cavalcanti - "Cucina teorico pratica" (1839)

 Il frontespizio della nona edizione (1852)
In molti si sono chiesti quali dovrebbero essere i caratteri che rendono "popolare" la letteratura. La risposta non è delle più semplici e non è questo il luogo per darne una, né voglio ora impelagarmi in una discussione del genere, che ha visto impegnate solo nel secolo appena passato alcune delle migliori menti del pensiero critico italiano, quella di Gramsci su tutte. Certo il problema linguistico è sempre in primo piano per chiunque si preoccupi di voler far arrivare "a tutti" la propria opera. La questione su lingua e dialetto è tuttora aperta (e in un certo senso è destinata a non chiudersi mai), e ci si è sempre chiesti quale dovesse essere la lingua ideale per raggiungere la comunità dei lettori (dei leggenti, oserei dire) lasciando fuori il minor numero di persone. Il duca Ippolito Cavalcanti (1787-1859), discendente dell'illustre famiglia toscana (trasferitasi al sud nel 1331 in seguito alla nomina vicereale da parte di Giovanna I)  e discendente di Guido Cavalcanti era ben conscio di questo problema. Era consapevole che il suo manuale di cucina e gastronomia napoletana, se redatto in lingua toscana non sarebbe arrivato ad una fetta consistente del pubblico partenopeo. Allo stesso modo sapeva che redigere un'opera in dialetto l'avrebbe confinata entro i confini campani, o giù di lì, senza raggiungere un uditorio più vasto. Da Qui la sua scelta di redigere il suo manuale, la "Cucina teorico-pratica" in due lingue, toscana e napoletana, così da poter essere compreso dal maggior numero di persone possibile, e toccare così ogni strato sociale (in grado di leggere).
Pubblicato in prima edizione nel 1837, e arrivato alla nona edizione nel 1852, il libro divenne immediatamente un classico della letteratura gastronomica ottocentesca.
Il libro non è solamente un libro di ricette, ma si occupa della scienza della cucina tutta, a cominciare dalla descrizione di come dovrebbe essere fornita una cucina ("molto ampia, col posto delle sue fornelle nel suo centro...situata nel pian terreno...), e proseguendo poi con la lista dettagliata di tutti gli utensili che si dovrebbero avere a disposizione (marmitte, casseruole, casseruole "matte", "pesciere", tortiere, padelle, stampi, "mescole di rame per schiumare", cioccolattiere", graticole, forchettoni...), fino ad arrivare alle norme per servire in tavola, per apparecchiare in maniera costumata, senza dimenticare alcune operazioni che oggi difficilmente si compiono in cucina, come il corretto modo di ammazzare un volatile ("Qualunque animale pennuto, che si vuol disossare, deesi primieramente saper ammazzare; dovendo farsi la ferita precisamente alla gola, e che non sia molto grande, onde non si laceri; avvertendo a tagliare perfettamente la trachea, perché così sortirà tutto il sangue, e la carne rimarrà bianca").
Il prontuario prosegue poi con la descrizione "di tutte le paste", dalla pasta frolla a quella per gli struffoli, dalla pasta di mandorle alla pasta per cannelloni; e dopo le paste si passa ai diversi modi per preparare il brodo, alle creme (la descrizione della preparazione della crema all'anice ha un che di poetico, nella sua rapida enunciazione: "Prendi once quattro di bombò col senso di anisi, li pesterai, li farai liquefare collo zucchero, e così avrai la crema di anisi").
Le ricette vere e proprie sono in maniera calendariale, fornendo un menù completo per ogni giorno della settimana. I piatti sono descritti prima in maniera sintetica e poi successivamente spiegati nel dettaglio. La cosa più interessante, a livello documentario, sono le "minute del dettaglio della spesa" poste alla fine di ogni capitolo, con i prezzi di tutti gli ingredienti citati nelle ricette.
Alla fine del terzo libro, ecco il cambio di lingua, e si passa dalla "lengua Truscana" alla "bella lengua nostra Napolitana". E l'autore spiega le sue ragioni: "Amici mieje, la capo ma fatto seccia, po compenà chisto quarto libro, e cheste benedette semmane cchiù me la fanno perdere, ma pe contentà a tante amice, e de chille associate, che m'hanno commannato, che nge mettesse no poco de Dialetto Napoletano, eccome cca, che nge lo metto comme meglio pozzo, avite pacienzam e compatiteme". E sembra divertirsi di questo cambio linguistico il Cavalcanti, quando, nella ricetta dei vermicelli si scusa col lettore patenopeo d'aver inserito un parola "troscana" all'interno del suo discorso: "Scaura tre rotola de vermicielli, li sgoccioli, aù aggio sbagliato, sculi, e li buoti dinto a no tino co tre musurella d'uoglio buono...".

Cucina Teorico Pratica su Google LIbri